le parole e le cose

La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi. (Franco Fortini, 1963)

Posts Tagged ‘Franco Basaglia

Lo Stato Addosso | Storia di Antonia

leave a comment »

manifesto_prima_etsratto

Il sette gennaio 1975 Luigi Pintor firma sulla prima pagina de Il Manifesto un editoriale sulla morte di Antonia Bernardini, morta per le ustioni riportate nel rogo del suo letto di contenzione, internata nel manicomio criminale di Pozzuoli (Napoli).  Le parole di Pintor sono tra le più dure e le più lucide scritte all’epoca su questa storia.  Le riportiamo qui per intero, ad accompagnare la presentazione del libro Storia di Antonia |Viaggio al termine di un manicomio (Sensibili alle foglie 2017), perchè per ovvie ragioni di spazio non abbiamo potuto farlo nel testo.


Luigi Pintor (il Manifesto del 7 gennaio 1975)

Invece che a palazzo Braschi, in Roma il procuratore generale conte Colli avrebbe dovuto inaugurare l’anno giudiziario in Pozzuoli, nel manicomio giudiziario.

Per scanno, avrebbe potuto usare il letto di contenzione dove è morta in un rogo Antonia Bernardini, donna povera di mezza età.

Le toghe di ermellino avrebbero fatto spicco tra le detenute di quel bagno penale.

collage

Il presidente della Repubblica, i ministri della giustizia e della sanità, il riformatore Aldo Moto, gli alti gradi della polizia e della burocrazia, insomma le “massime autorità dello Stato”, avrebbero potuto apprezzare di persona la bontà, e soprattutto l’efficienza, delle istituzioni da loro degnamente rappresentate.

In questa storia di una innocente arsa viva c’è tutto. Questa donna aveva “addosso” lo Stato tutto intero. Ogni pezzo di questo Stato, con una perfetta convergenza di meccanismi, ha concorso a perseguitarla e a ucciderla, in poco più di un anno.

Dicono che il manicomio giudiziario di Pozzuoli sia un ex convento, dunque è logico che sia stato trasformato in un lager per sole donne. I letti di tortura vi abbondano, le iniezioni di zolfo come moderna terapia psichiatrica anche.

Antonia Bernardini non è stata la prima a morirci tragicamente. Tuttavia il direttore di questo tempio di giustizia per malati e reietti non sarà arrestato, forse riceverà una cattedra. E’ anche parente dell’ex ministro Bosco, ed ha per assistenti delle suore affini a Maria Diletta Pagliuca.

I manicomi giudiziari dovrebbero essere chiusi, i tavolacci dove si lega la gente sono fuori legge, dovrebbero essere dati alle fiamme. A Pozzuoli infatti è andata così, ma con una persona legata sopra.

Leggiamo che il direttore del lager, buon burocrate che ha il senso del denaro e della pubblica proprietà, vuol far pagare agli eredi della donna morta il tavolaccio bruciato.

La presenza di un socialista ieri e di un repubblicano oggi al ministero di grazia e giustizia dà così i suoi buoni frutti per non parlare della presenza socialista e democristiana di sinistra al ministero della sanità.

Ma perché questa infelice donna era capitata nel manicomio di Pozzuoli? Per aver fatto una fila alla biglietteria della stazione di Roma, aver perso la pazienza e avere “oltraggiato” un vigile, detto anche pubblico ufficiale. Invece di processarla e magari condannarla, per un così lodevole reato, i sacerdoti del potere giudiziario l’hanno tenuta “in attesa di giudizio” per più di un anno, in un manicomio.

Accade a migliaia di persone, sole e dimenticate. Ora c’è un processo di meno da celebrare, e un funerale in più.

Una riforma dei codici e una riforma carceraria seria non dovrebbero, come generalmente si crede, spazzar via queste incredibili nefandezze delle nostre istituzioni repressive, giudiziaria e psichiatrica, sanitaria e burocratica. Non basterebbe. Dovrebbero cominciare col ripristinare l’ergastolo e i letti di contenzione per i giudici che non giudicano, i medici che non curano, i politicanti e i ministri irresponsabili, i legislatori pigri, i detentori di un potere pubblico che perpetua simili meccanismi e si macchia di queste colpe.

Deplorando questa condanna a morte, eseguita a Pozzuoli con una versione speciale di sedia elettrica, gli psichiatri democratici dicono che la sentenza è stata eseguita “congiuntamente da due fra i più forti sistemi repressivi esistenti in Italia, quello giudiziario e quello psichiatrico”.

Vero, ma questi sistemi hanno dei responsabili in carne ed ossa, tecnici e politici, che nessuno chiama mai seriamente in causa.

Un piccolo gruppo di radicali sta manifestando sotto le finestre del ministro Reale perché faccia qualcosa, ma questo ministro saranno dieci anni che non ha fatto nulla ed è ministro lo stesso.

Per fortuna, e in compenso, avanza la riforma sanitaria. Nel senso che gli ospedali, in cancrena, si sfasceranno sotto il regime delle regioni invece che del potere centrale.

Un medico napoletano ha dichiarato ieri che dal silenzio sulla riforma sanitaria, intesa come prevenzione, assistenza sul territorio, autogestione ecc., al tragico fatto di Pozzuoli “corre un filo diretto”. Non c’è dubbio, come ci corre con la prolusione del conte Colli, il governo della tregua sociale e degli equi sacrifici, l’inerzia parlamentare.

Dalla coda di una biglietteria di stazione al manicomio e al cimitero di una cittadina del sud, con risarcimento postumo dei danni a carico della vittima in attesa di giudizio: un bell’itinerario, un esempio di civiltà latino-borghese. Ma per fortuna è una vicenda della notte del 31 dicembre 1974, anno duro per via della crisi petrolifera.

Ora siamo nel 1975 anno di sicura ripresa, di riforme certe, di rinnovamento dello Stato: purché beninteso i cittadini abbiano fiducia, in questo Stato che certamente la merita; e diano una mano all’on. Moro, che è uomo di idee avanzate, capace di mandare una corona di fiori al cimitero di Pozzuoli, se fosse in Puglia.

290

Written by Dario Stefano Dell'Aquila

16 ottobre 2017 at 13:30

La Pratica Anti-istituzionale (Franco Basaglia)

leave a comment »

foto_tremolada


“Ma è da questa contraddizione costante, da questo confronto costante del mondo del lavoro e della poesia, che noi possiamo trovare la forza di affrontare la problematica della nostra vita.” (Franco Basaglia)


La Pratica Anti-istituzionale*

Franco Basaglia

basagliaMi pare fuori discussione l’importanza e il significato della scelta fatta dagli obiettori che hanno organizzato il convegno di Verona e hanno scelto per le relazioni introduttive due voci che rappresentano non se stesse ma dei gruppi che lottano nel campo della trasformazione del mondo dell’assistenza e nel mondo del lavoro. Infatti io sono qui come rappresentante di psichiatria democratica, che è un movimento che lotta da anni nel campo dell’assistenza e della sanità per trasformare le istituzioni pubbliche in luoghi di cura e non di custodia e segregazione.

Gli obiettori di coscienza hanno dichiarato di aver trovato in questo primo anno di attività di servizio civile delle difficoltà previste e altre che pongono una problematica estremamente angosciante per quello che riguarda la continuazione del loro lavoro. Emerge il problema molto importante della presenza degli obiettori negli istituti dove prestano servizio civile che si aggiunge a quello costituzionalmente più difficile dell’emarginazione, dello sfruttamento della persona emarginata, lasciata fuori dal gioco del mondo del lavoro. L’attività e la presenza degli obiettori rischiano di porsi in contraddizione con la problematica delle lotte nel mondo del lavoro. Da circa un anno un gruppo di obiettori lavora permanentemente nel settore che io dirigo; ciò ha provocato dei contrasti con i sindacati per il lavoro svolto dagli obiettori. Tali contrasti, piuttosto vivaci sono dovuti al fatto che i sindacalisti giudicano la presenza degli obiettori talora negativamente, li accusano di crumiraggio, di servire cioè il padrone risolvendo le contraddizioni che sono al centro delle lotte che si svolgono per la rivalutazione del mondo del lavoro degli infermieri degli ospedali psichiatrici.

Penso che l’obiettore ha aperto una contraddizione che non è tanto riferita al problema dell’esercito che potremo discutere a parte, ma a un altro problema estremamente difficile dal punto di vista concettuale e dal punto di vista politico, che è quello dell’emarginato, della persona che non appartiene neanche al mondo del lavoro, della persona che è espulsa, che non è considerata, che ha mai avuto la possibilità di accedere al mondo del lavoro.

Gli istituti per handicappati contengono delle persone che hanno una problematica che, almeno dal punto di vista formale, non è presa in considerazione dal mondo del lavoro, delle rivendicazioni sindacali, ecc. Quindi tutto il discorso dell’emarginazione sociale, che non è stato preso abbastanza in considerazione dal pensiero marxiano e dalle scienze politiche, evidenzia la contraddizione dell’assistenza: l’istituto contiene un gruppo di persone (lo spastico, il cieco, il sordo, il frenastenico, ecc.), un mondo cioè che non trova posto in questa società, persone che oscillano nell’organizzazione sociale tra le istituzioni che sono riassunte nell’ideologia della punizione e nell’ideologia della carità. Per concretizzare il discorso possiamo fare l’esempio della famosa suora, la Pagliuca, che aveva risolto il problema dell’emarginazione attraverso l’ideologia della punizione, della segregazione, della morte di questi infelici a lei affidati; dall’altra parte il mondo delle persone che ricevono la carità da buone persone che si dedicano loro per risolvere questa problematica di emarginazione.

Ebbene nel momento in cui delle persone con una coscienza di lotta, come sono gli obiettori, che vengono da una lotta antimilitarista e che stanno acquistando a mano a mano una loro coscienza politica, si trovano di fronte a questa situazione di emarginazione che non è presa in considerazione da alcuno (neppure dalle forze politiche e sindacali) sorgono dei problemi che l’obiettore di coscienza come nuova figura di agente di trasformazione deve affrontare.

Nuova immagine2

L’obiettore si trova in una situazione di volontariato estremamente contraddittoria, al di fuori di quello che può essere il lavoro reale, il mondo della produzione e si trova a dover rispondere praticamente togliendo lavoro a chi lo ha. Il rischio che l’obiettore diventi “un tura buchi” di organizzazione pubblica o privata è estremamente presente e pericoloso. Lascio al sindacalista affrontare questo grosso problema e queste contraddizioni che nascono dalla problematica del mondo del lavoro. Io vorrei fare alcune considerazioni e puntualizzazioni che possono chiarire perchè dalla contestazione dell’esercito l’obiettore sia arrivato alla contestazione dell’organizzazione sociale nella quale viviamo. L’esercito, e questo non lo dico solo io, è l’istituzione base sulla quale si identificano tutte le istituzioni totali della nostra società.

Notiamo, per esempio, che nei paesi in cui la violenza istituzionale è più dura, la trama dell’organizzazione sociale è controllata e gestita dall’esercito, come nei paesi sud americani, dove l’esercito non ha bisogno di avere istituzioni di copertura perchè è esso stesso che esercita direttamente la violenza, reprime e controlla; nei paesi, invece, in cui c’è stata un’evoluzione del capitalismo, è stato necessario creare altre istituzioni che potessero così gestire una società in movimento, tutte comunque a modello di quella che è la struttura dell’esercito.

L’esercito controlla il cittadino con il preteso della difesa della patria, oggi l’esercito difende il sistema sociale e tutte le istituzioni, che sono fatte secondo la logica dell’esercito e hanno le stesse finalità. Analizzando qualunque istituzione assistenziale vediamo che ha la stessa struttura dell’esercito: la struttura del manicomio per esempio è totalmente identica a quella dell’esercito. Quando l’obiettore entra nel manicomio si trova in una situazione totalmente identica a quella della caserma, perché la logica è la stessa. L’obiettore di fatto è nella scala gerarchica al penultimo posto, quello prima dei malati e avrebbe il compito di controllare e violentare, delegato a ciò dagli infermieri,il malato che è a lui sottoposto.

E qui si verifica una situazione interessante, come è successo nel nostro istituto, dove i 6 obiettori lavorano in uno dei reparti più regrediti con persone frenasteniche, deficienti in altre parole, che non sanno badare a se stesse, il cui rapporto con il personale assistenziale è un rapporto unicamente di violenza e l’obiettore funge da cuscinetto tra l’infermiere il malato. Penso, per esempio, che dalla lotta che è evidenziata in quest’anno di lavoro fatto dagli obiettori, sia nata una nuova coscienza a livello di tutti e tre i componenti di questa stratificazione. Abbiamo verificato che il rapporto degli obiettori con gli infermieri, che sono alienati dal lavoro manicomiale è di continuo stimolo per questi ultimi.

Franco Basaglia e parte del suo gruppo di lavoroE’ opportuno a questo punto aprire una parentesi per spiegare il significato di quest’ultima frase. Gli infermieri rappresentano nel mondo sindacale il gradino più basso di coscienza politica, rispetto agli altri lavoratori. Infatti le rivendicazioni sindacale di questa categoria sono sempre a livello salariale. Ma per questo non si può dire che si tratta di una corporazione piccolo borghese o altro, dobbiamo trovare le ragioni per cui questo succede. La situazione tra l’infermiere e l’operaio della fabbrica è estremamente più positiva per il secondo perché questi comprende molto facilmente cos’è il mondo della alienazione nel quale vive, capisce che il lavoro non è suo e che è alienato e quindi si forma una coscienza politica molto più velocemente di qualsiasi altro lavoratore perchè l’oggetto del suo lavoro è una macchina, è una cosa, e quindi capisce molto più velocemente la mercificazione di cui è oggetto, che non l’infermiere che trova come oggetto del suo lavoro un altro uomo, cioè il problema di ridurre a soggetto l’oggetto che ha di fronte è una cosa estremamente difficile perché impegna una persona e quindi l’infermiere facilmente si adagia nella delega di custode del malato che appunto perché ritenuto pericoloso si deve custodire e diventa così carceriere del malato, vittima-carnefice contemporaneamente della sua situazione.

Nel momento in cui ha di fronte una persona handicappata anziché vivere la situazione con l’handicappato e cioè prendere coscienza di questa determinata situazione, si adagia in una situazione nella quale il malato diventa una merce, una cosa e si aliena. La sua lotta sindacale diventa quindi corporativa, perché la fa per sfuggire all’alienazione, con rivendicazioni solo salariali.

Facendo una scala degli infermieri si nota che quelli che lavorano in una situazione con malati molto regrediti sono i più reazionari, perché l’oggetto di trasformazione, di soggettivazione è molto più complicato che non per l’infermiere che lavora con il malato acuto, per esempio, dove il mondo della riabilitazione può essere molto più veloce. Ebbene, gli obiettori, si trovano di fronte a dei malati molto regrediti, il cui livello di comprensione della realtà e di rapporto con la stessa, è molto più difficile. Pur tuttavia questo gruppo di obiettori ha svolto in questo anno un tipo di lavoro estremamente valido perché ha messo in discussione sia la riabilitazione in se, sia come viene fatta a livello di questi malati, di queste persone regredite, sia perché hanno dato agli infermieri lo stimolo continuo di prendere coscienza di quello che è realmente il loro lavoro.

In questo senso io credo veramente che l’obiettore viene ad essere, come il volontario d’altra parte, un elemento catalizzatore, che al di là del problema di sottrazione di posti di lavoro, si trova ad essere l’elemento che pone in evidenza delle problematiche o delle contraddizioni perché è l’obiettore una contraddizione esso stesso: perché nel momento in cui rifiuta di fare il servizio militare, esprime una contraddizione, e nel momento in cui viene accettata la sua obiezione dallo Stato e che si pone in una situazione pratica non può continuare a fare la lotta antimilitarista, nella nuova realtà in cui si trova a operare creerà delle nuove contraddizioni che a loro volta ne creeranno altre. In Cina non ci sono obiettori perché non c’è n’è bisogno, infatti l’esercito è al servizio del popolo, mentre qui da noi, l’esercito, come la polizia, servono a controllare il popolo.

Nuova immagine

Al di là della pretesa del ministero della difesa che vuole obiettori testimoni di Geova o comunque con motivazioni morali o filosofiche, l’essenza dell’obiettore politico è ben più pregnante e pericolosa perché fa esplodere delle contraddizioni anche all’interno degli istituti dove va a fare il servizio civile. Noi a Trieste cerchiamo di vedere l’obiettore come una persona che catalizza, che esprime delle contraddizioni all’interno dell’istituzione.

L’obiettore non è un tecnico, non è nulla, è una persona che viene ingaggiata dalle istituzioni e la cui presenza crea costantemente contraddizioni e complica la vita dell’organizzazione. I volontari e gli obiettori per noi complicano costantemente il mondo della nostra organizzazione perché lo mettono costantemente in discussione. Nel momento in cui io per esempio, come direttore di ospedale riesco a creare una situazione di omogeneizzazione e, subito dopo, viene il medico a dire che gli obiettori hanno creato una nuova situazione di conflittualità, io mi ritrovo nella condizione di ricominciare tutto da capo, cercando di mediare contrasti tra i singoli e gli obiettori.

11024626_966885386677698_244561323095637053_n

Franco Basaglia

E’ mia impressione non c’è ancora da parte dei dipendenti del nostro ospedale, anche rappresentanti sindacali, la consapevolezza di questo problema ma una lenta presa di coscienza che questa contraddizione esiste.

L’obiettore di coscienza che non sa niente di psichiatria o di altre specialità nelle quali lavora avrà l’opportunità di assumere delle acquisizioni specifiche. Molti degli obiettori finito il loro servizio potranno scegliere di rimanere a lavorare nell’assistenza, in ogni caso diventeranno dei cittadini il cui servizio civile è stato estremamente importante per capire i meccanismi di repressione presenti nella società. E forti di questa esperienza io penso che porteranno avanti la loro esperienza e le acquisizioni fatte nella situazione istituzionale della loro vita.

Vorrei terminare con una frase che ci ha detto un malato schizofrenico e che è la summa di quello che ho tentato di dire in riferimento al problema che stiamo trattando: «Quando entro in osteria – diceva questo malato – e parlo di poesia e della vita, dicono che sono matto, se parlo di lavoro e di denaro dicono che sono un uomo». Questa affermazione che sembra così paradossale e così diversa da quello che ho detto, penso che sia estremamente importante, e che verifichi proprio i due aspetti contraddittori della vita nella quale siamo. Da una parte l’uomo che si libera attraverso la vita con gli altri e dall’altra l’uomo che è costretto dal denaro e dal lavoro a essere quello che non vuole.

Ma è da questa contraddizione costante, da questo confronto costante del mondo del lavoro e della poesia, che noi possiamo trovare la forza di affrontare la problematica della nostra vita.

*Intervento pronunciato al convegno del 24-25 maggio 1975, tenutosi a Verona, promosso dalla Lega Obiettori di Coscienza (LOC). Pubblicato nel volume curato dalla LOC, Il servizio civile in Italia, Savelli, Roma, 1976.

Written by Dario Stefano Dell'Aquila

11 Maggio 2017 at 13:00

Praticare la differenza | Donne, psichiatria e potere

with one comment

Se la sofferenza non è condivisibile né narrabile, le si può però stare accanto, e il più vicino possibile – senza deliri di onnipotenza medica o psichiatrica, speculativa o religiosa, artistica o affabulatoria, consapevoli tuttavia che rimane sempre uno scarto insuperabile fra il viverla e il parlarne (Fabrizia Ramondino).


Dario Stefano Dell’Aquila – Antonio Esposito

E’ da ieri in libreria il  libro di Assunta Signorelli, Praticare la differenza. Donne, psichiatria e potere. (Ediesse, 2015), con prefazione di Renate Siebert.  Quella che segue è un estratto della nostra introduzione al volume.

copertina «Nel dicembre del 1970 ho varcato i cancelli del manicomio di Parma. Ero al quarto anno di medicina, per me era il Professor Basaglia, ma era bastato telefonargli e dirgli che volevo lavorare con lui per fissare quell’appuntamento. In realtà, quando l’ho conosciuto pensavo che Merleau-Ponty fosse un vino francese, poi l’incontro con Franco mi ha cambiato la vita». Lo racconta con un sorriso schietto e coinvolgente Assunta Signorelli mentre la ciocca viola, in elegante pendant col vestito, spezza l’argento vivo della lunga chioma e sembra quasi disegnare quel margine che lei ha sempre autenticamente vissuto, il margine di cui parla bell hooks, quel “doppio” costitutivo dell’identità femminile, escluso a noi maschi, che Assunta rivendica con lo stesso orgoglio delle sue origini partenopee (o meglio del suo essere “sudicia” come ama presentarsi).

Complessità, conflitto, lotta, termini e concetti che ritrovi nella sua vita, prima che nei suoi racconti e nei suoi scritti. Come se la consolatoria accettazione di “ciò che è” non abbia mai trovato spazio a fronte della faticosa ricerca di “quello che può essere”. E proprio in questo, ci sembra, si possa ritrovare il senso profondo di quell’incontro con Basaglia, e insieme a lui con gli operatori, medici, pazienti, familiari, ma anche studiosi, educatori, intellettuali, artisti, studenti, quella comunità di donne e uomini che, riconoscendosi, si incamminavano per costruire “un’utopia della realtà”, il superamento del manicomio, e con esso una nuova dimensione di socialità e cura, una restituzione dei diritti di cittadinanza per quanti vivono la sofferenza psichica.

La Signorelli, insieme ad alcuni pionieri di quell’esperienza e altri compagni e compagne incontrati nel suo viaggio di vita, ha seguito nel lavoro, negli studi e nell’impegno, questa traccia. E lo ha fatto anche contro chi pure aveva partecipato a quello stesso movimento, ma ne ha poi tradito il testamento ideale e valoriale, accontentandosi della parzialità di risultati presentati come vittoria, così rifiutando man mano di dare possibilità all’impossibile. Lo spazio dell’impossibile, di ciò che in un determinato momento storico appare impossibile, è proprio quello che Assunta Signorelli continua a perseguire, sia nell’impegno professionale che in quello civile e politico. Il suo testardo non arrendersi alla banalità del “non può essere altrimenti” si apre, inevitabilmente, alla possibilità della sconfitta, che pure subisce e di cui paga direttamente le conseguenze, ma, allo stesso tempo determina anche “occasioni” che segnano nuove inaspettate direzioni, sempre “ostinate e contrarie”.

Franco Basaglia (con parte del suo gruppo di lavoro)

Così, ad esempio, in quella che resta una delle più importati esperienze di deistituzionalizzazione della sofferenza nel Meridione ma anche, per il suo incredibile epilogo (pazienti sgomberati dai reparti della celere), una ferita non ancora rimarginata, non solo nella vicenda personale di Assunta Signorelli, ma nella storia della salute mentale in Italia: la sua direzione del Papa Giovanni a Serra d’Aiello in Calabria. Esperienza che inizia nel 2006, ma sembra fare riferimento ad un tempo sospeso da ogni storia. Questa la situazione riscontrata dalla Signorelli alla prima verifica delle cartelle cliniche delle pazienti lungo degenti:

Su 360 per più della metà non si sapeva perché erano state accolte (numerose le situazioni di ordinaria miseria economica e culturale), per altre la diagnosi psichiatrica era falsa o strumentale (tante le donne ricoverate perché madri senza essere mogli!).

In questo cronicario di vite di scarto, dove l’abbandono degli ultimi si intreccia agli interessi del clientelismo politico, del malaffare, della criminalità organizzata, nonché al modello assistenziale della Chiesa, la Signorelli non solo si scontra con un sistema corrotto che determina annichilimento, ma deve affrontare anche e soprattutto quel sentimento di irrimediabilità che, troppe volte, trasforma il nostro Paese e soprattutto il Sud in una terraferma, servendo, al contempo, da giustificazione preventiva per un pervasivo esercizio di impotenza. Ed è proprio nel rovesciamento di questa apatia fatalistica, che riteniamo possa ritrovarsi uno dei significati più importanti di questa come di altre esperienze della Signorelli. (…)

Se nel campo delle discipline sociali è difficile trovare testimonianze ragionate che siano anche guida alla operatività, nel campo delle discipline psichiatriche tale ricerca diviene oggi quasi frustrante. Progressivamente confinata nel margine dei saperi tecnici, la psichiatria, dopo Basaglia, ha smarrito ogni volontà di confronto, con sé stessa e con un pubblico più ampio, che non fosse nelle forme classiche e accademiche della trasmissione dei saperi. Il discorso medico, nella sua afasia tecnicistica, ha poi annullato ogni traccia di discussione sulle questioni di genere. Del resto, se il sintomo è l’unico segno attraverso cui vedere la malattia, cosa conta la persona, cosa importa chi è e cosa fa quella persona, il suo essere uomo o donna? Ed ancora, è rarità nella rarità che un operatore che non vive nel mondo dell’accademia universitaria, ma in quello dei servizi di salute mentale, avverta l’esigenza di confrontarsi sul piano teorico, ma a partire dalla prassi, con i propri riferimenti politici e culturali.

Ecco, la raccolta degli articoli che qui seguono, è invece segnata proprio da queste tre caratteristiche che si sono date naturalmente lungo l’intero percorso teorico e, soprattutto, esperienziale di Assunta Signorelli. Non sono dunque il frutto di una semplice esigenza editoriale, ma la naturale conseguenza di un cammino coerente anche nel suo procedere per sollecitazioni diverse, inciampi e ri-partenze.

fanon

Frantz Fanon, I dannati della terra

Il primo nucleo di articoli si apre con il confronto tra Franco Basaglia e Frantz Fanon. Per la storia politica e personale della Signorelli, un riferimento “genealogico”, elaborato nel pieno della già citata esperienza di governo di uno degli ultimi manicomi ancora, “clandestinamente”, aperti in Italia, con il nome di cronicario, il Papa Giovanni XXIII. Si ripropone qui, in chiave di stretta attualità, il tema della “istituzione negata”, dello psichiatra che lotta per chiudere la struttura che è chiamato a dirigere, consapevole che il processo di chiusura deve tutelare in ogni fase i sofferenti psichici, restituendo cura e libertà attraverso una nuova rete di servizi territoriali, e non piuttosto limitandosi semplicemente a trasferirli altrove, in piccoli “manicomi residenziali. Di qui, in particolare, lo specifico interesse della Signorelli sulla relazione di entrambi con le istituzioni.

Da un lato l’esempio di Fanon, che non esita a dimettersi, quando gli viene richiesto di svolgere una funzione normalizzatrice, perché «la pazzia è uno dei modi in cui l’uomo perde la sua libertà», ma anche di Fanon che continua il lavoro nel reparto psichiatrico del policlinico Charles Nicolle, a Tunisi, organizzando e gestendo il day-hospital per dimostrare, scrive Assunta, «l’efficacia terapeutica di una pratica fondata sul riconoscimento della persona sofferente come portatrice sia di bisogni e desideri sia di un conflitto con il mondo circostante che non può essere negato e nascosto, come accade nel manicomio».

Franco Basaglia

Franco Basaglia

Dall’altro lato, Basaglia che dice «Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione, (noi) per evidenti ragioni obbiettive ne siamo impediti, la nostra realtà è ancora continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione che neghiamo, facendo un atto terapeutico che rifiutiamo (…)». La critica radicale al manicomio non consente al medico di fuggire in avanti, ma gli attribuisce invece una duplice responsabilità. Scrive la Signorelli «sin dall’inizio due furono i capisaldi del lavoro a Gorizia: il riconoscimento della singolarità di ogni persona ricoverata e la consapevolezza dell’asimmetria del rapporto medico paziente, rapporto sempre di potere, tanto più in un manicomio dove alla persona ricoverata è negato anche lo statuto di persona». Dopo tanti anni, l’insegnamento di Fanon e Basaglia richiede una nuova pratica, in quello che sembra essere (ed è) un manicomio civile sopravvissuto e dimenticato, appunto il Papa Giovanni.

Il secondo nucleo di articoli ha come centro di riflessione, un aspetto incredibilmente trascurato tanto nella storia del movimento di critica psichiatrica che nella letteratura sulla organizzazione dei servizi di salute mentale. Se rileggiamo oggi la storia del movimento di “psichiatria democratica”, anche nei testi più recenti, è sempre una storia, prevalentemente, maschile. Non perché sia una storia, inevitabilmente, centrata sulla figura di Franco Basaglia, ma perché in fondo è mancato un racconto che partisse da un orizzonte che non fosse quello maschile, anche nel caso di scritture femminili. Il recente volume di John Foot, ad esempio, che pure restituisce in parte la meritata attenzione al ruolo di Franca Ongaro, riporta il racconto di una storia maschile. Forse, anche perché, è mancato dalle stesse protagoniste di quella esperienza il racconto del loro punto di vista. Anche nei movimenti più critici e radicali, nel confronto con il potere, si ripropongono, in forma magari più velata, dinamiche che costringono il “femminile” a negarsi o a nascondersi:

Crediamo di poter dire che allora (negli anni ‘70-’80), quando a Trieste si lavorava per la rottura del manicomio e dei suoi meccanismi istituzionali, non avevamo la consapevolezza e la cultura di chiamare “qualità femminili” quelle che agivamo. Se da una parte ricostruivamo storie, attenzioni, luoghi dove era possibile e dignitoso vivere, stimolavamo desideri e complicità, portavamo la normale affettività in luoghi e situazioni deprivate da sempre di queste, dall’altra molte di noi furono costrette ad imparare a modificare le proprie emozioni, per acquisire modalità di riconoscimento e di azione maschili, pena l’essere negate o distrutte.

Forse non era possibile agire altrimenti, mancava in quegli anni, e non solo in noi, l’intuizione che il manicomio, la psichiatria, era “figlio naturale” di una logica assoluta che non permetteva, allora come oggi, diversità/differenziazioni.

Presentazione Trieste

Presentazione Trieste

Il tema delle differenze di genere, del maschile e del femminile e delle relazioni di potere che ne conseguono, è un tema “sotterraneo” che, come un fiume carsico, torna in superficie solo per brevi tratti. Ma è un fiume comunque inarrestabile.

E tra le differenze possibili ad un certo punto si è imposta quella più naturale, la più ovvia forse, ma proprio per questo sempre nei luoghi di cura occultata: la ”differenza di genere”. Questione, questa della “differenza”, che per tutti i primi anni aveva attraversato il processo di distruzione del manicomio in modo sotterraneo, come un fiume carsico che solo per brevi tratti scorre in superficie. [come l’episodio della prescrizione di un anticoncezionale per una giovane donna rinchiusa (1973), il “collettivo per la salute della donna” (‘76-’78) nato dalla mobilitazione sul diritto della donna di interrompere la gravidanza per motivi terapeutici connessi al suo equilibrio psichico, la partecipazione attiva ai processi per “stupro” nei confronti di donne portatrici di sofferenza psichica (1978)]

Si inserisce in questo nucleo di articoli, l’intreccio di una riflessione operativa sulla convivenza tra genere e potere, sulla famiglia come luogo di violenza, sulla depressione, sulla omologazione, sulla relazione tra identità e potere, sul dolore e sulla sofferenza delle donne. Temi che trovano la loro connessione immediata nel principio che si pone a fondamento organizzativo del Centro Donna Salute Mentale. Perché è in questo servizio che trovano sintesi esigenze politiche, sociali e culturali, prima che quelle “sanitarie” (senza che questo nulla tolga alla centralità dell’offerta di assistenza psichiatrica)

Nasce così “Centro Donna-Salute Mentale”, che, organizzandosi come un centro sulle 12 ore rivolto alle donne portatrici di sofferenza con solo operatrici e, contemporaneamente, grazie alla compresenza nel centro dell’associazione, come polo, nella città, di aggregazione sulle tematiche femminili, si pone come obiettivo prioritario l’affrontamento del disagio femminile, in termini di differenza di genere.

Centro Donna Salute Mentale (Trieste)

Centro Donna Salute Mentale (Trieste)

Questo posizionarsi come genere, questo assumere come punto di partenza e di arrivo l’essere donna, questo saper fare le differenze ha risvolti pratici nell’organizzazione dei servizi.

Posizionarsi come genere e come soggetti rende più facile l’interlocuzione, sia con la psichiatria,quando si vuole fare salute mentale per le donne, che con altre discipline come la storia, la letteratura, l’arte sufficientemente lontane dalla medicina da non correre il rischio di essere mangiate e digerite, come é successo, invece, a saperi di memoria femminile,(l’uso delle erbe e dei fiori, le medicine dolci/alternative/complementari) ormai completamente assorbiti nel Grande Mercato, e quindi, omologati, spogliati di ogni potenzialità realmente trasformatrice perché rinchiusi in un mondo a sé, dove tutto é bio-x e resta rigorosamente fuori dalle questioni.

Per noi, invece, resta sempre aperta la questione del potere e delle donne: non siamo ancora in grado di esplicitare i nessi ed il legame che esiste fra l’antagonismo nei confronti delle istituzioni che la nostra pratica quotidiana produce ed il nostro essere comunque istituzione di potere.

La connessione tra questo nucleo di articoli e l’ultima parte del volume è quindi automatica. Posto come cardine dell’organizzazione dei servizi di salute mentale il reale senso dell’esperienza del movimento basagliano e il riconoscimento delle differenze di genere come rifiuto e resistenza ad ogni legame soffocante, il catalogo che ne discende è una traduzione pratica di concetti molto chiari.

Praticare le differenze, questo sembra dire con semplicità la Signorelli, e su questo assunto organizzare e garantire la qualità nei servizi territoriali, saper rispondere e intervenire contro la violenza sulle donne, superare gli SPDC, recuperando anche, senza nostalgie o ritualità, ma come utili strumenti operativi, gli spazi di confronto, dibattito, riflessione collettiva e assembleare, tra cittadini, pazienti e medici, tutti chiamati a dare il proprio apporto. (…)

Questi scritti non sono stati selezionati dai curatori. A noi è stato dato un compito di raccogliere ciò che nel tempo si è “concatenato” con bellezza e coerenza. Perché la visione politica, che vive nelle parole di Assunta Signorelli, è tutta qui. Nella bellezza di una storia di lotte, desideri e consapevolezza delle differenze, nella coerenza di chi ha fatto parte di un movimento che nella esperienza triestina ha dato la migliore prova di sé, nella volontà e nel coraggio di chi ancora si batte per dimostrare a tutti quanto sia concreta e realizzabile quell’utopia della realtà.

__________________

1959601_10202591802030390_1501566893_n

Assunta Signorelli

Assunta Signorelli, psichiatra, basagliana, femminista non pentita, madre di due figlie e un figlio, ha partecipato alla chiusura del manicomio e alla costruzione della rete dei servizi territoriali di Trieste. Promotrice, con altre operatrici, dell’esperienza di Centro Donna – Salute Mentale di Trieste, direttore poi del Dipartimento di Salute Mentale di Siena e successivamente chiamata in Calabria dall’Azienda Sanitaria di Paola. Ha diretto il Dipartimento di salute mentale di Trieste. È autrice di numerosi articoli su psichiatria e differenza di genere. Ha scritto, tra l’altro, con Fabrizia Ramondino e Renate Siebert, In direzione ostinata e contraria (Tullio Pironti, 2008)

Written by Dario Stefano Dell'Aquila

28 Maggio 2015 at 15:03