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Il filosofo e lo psichiatra | Aldo Masullo e Sergio Piro

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in copertina "Tecniche di liberazione" di Rinedda

in copertina “Tecniche di liberazione” di Rinedda

Quella sofferenza oscura che viene comunemente detta malattia mentale, depressione, nevrosi, disadattamento, (…) è impregnata di esclusione sociale e guerra, talora nel suo determinarsi, sovente nel suo radicarsi e complicarsi, sempre nella sua immersione sociale e nelle relazioni che vi attengono (Sergio Piro)


Sergio Piro. Maestri e allievi è un libro che raccoglie sedici scritti su una delle più belle intelligenze del nostro tempo. Psichiatra, ma anche epistemologo, ricercatore del linguaggio, musicista, militante politico, Sergio  è stato fino alla sua scomparsa un punto di riferimento per più generazioni di psichiatri, ricercatori, studiosi e militanti. Riporto qui, con il consenso del curatore del libro, Luigi Maria Sicca, un estratto dell’intervento di Aldo Masullo (I linguaggi della follia e i passi della salvezza).

[Sono stati inseriti dei link per chiarire il senso filosofico di alcuni termini e agevolare la lettura di un testo, breve, ma che richiede più concentrazione di quella che, di solito, si impiega leggendo un articolo sul web. Ma è un impegno che trova ricompensa, perché, come sempre, le parole di Masullo aprono nuovi affascinanti orizzonti.  ndr]

(…) Sergio Piro non può lasciarsi inghiottire nel mutismo “patico” nè può farsi tentare dall’iperplatonica paradossalità del gioco d’ombre delle “fenomeno-patie”. Egli, in quanto psichiatra, deve agire, organizzare sistemi di pratiche, “spingersi” in disegni trasformativi e “gettarsi” nella loro attuazione, risolversi insomma nella “prassi”.

In fondo è una nobile Weltanschauung, una “ideologia” non strumentale, un’autentica persuasione prescientifica, espressiva della generosità di Sergio, a spingerne la mai stanca ricerca, vissuta come la sua stessa vita tutt’intera nella pienezza delle lotte giuste e della gioiosa solidarietà.

Della “paticità” dell’umano Piro ha bisogno di non fare una barriera, invalicabile alla comunicazione, quasi ultima vettura di un treno, sganciata e in fuga a ritroso per una discesa senza fine, in breve un nodo scorsoio che nessun sapere può sciogliere. Il suo bisogno è di riconsegnarla alla naturale unità della psiche, la cui rottura è soltanto un «artefatto», un effetto della riflessione della coscienza.

Nell’ultima testimonianza di sé, consegnata alle dense “conversazioni con Candida Carrino, Sergio avverte: «la grande scissione che facciamo tra vita relazionale, razionale, conoscitiva, linguistica e vita emozionale, patica, diffusa, è tutta legata alla riflessività, alla predicatività, mentre la [vita] nella fase precedente è unitaria. Emozione e pensiero sono fusi e aggregati tra di loro ed è l’intervento della teticità della coscienza, della riflessività che crea l’artefatto, la faglia disastrosa (“disastroso” nel senso strutturale) della coscienza tetica. Proprio una parte del mio lavoro di ricerca si chiama “la faglia disastrosa della coscienza tetica”» Tale faglia è solo una «specializzazione temporanea del nostro vivere».

Piro evita così di arrivare all’estrema ammissione che il “patico” non è una semplice rottura artificiosa della continuità tra l’emozionale e il logico, ma è il costitutivo “punto cieco” del sapere, la già, da Platone, notata impossibilità per l’occhio di vedere se stesso.

A tanto, invero, Sergio non vuole, perché non può arrivare. Ciò per due potenti motivi personali. Innanzitutto, l’irrefrenabile curiosità intellettuale non gli consente di rinunciare a esplorare sconfinati mari di sempre nuovi saperi. In secondo luogo, la sua inflessibile tensione etica gli impedisce di disertare la psichiatria, la quale o è la prassi trasformatrice medica per salvare individui che gravemente soffrono  – e insieme politica – per bonificare il contesto sociale della loro sofferenza, o non è.

In conclusione, sull’autocensura della fenomenologia idealistica di stretta osservanza husserliana e sullo scacco della fenomenologia esistenziale d’ispirazione heideggeriana di fronte al problema del trattamento scientifico della “paticità”, Piro legittima l’accordo tra la critica teorica e le proprie esigenze profonde, per abbandonare il giovanile progetto della «psichiatria fenomenologica» in favore di una prassi iatrica meno astrattamente rigorosa, ma, come un’estesa rete a strascico, più funzionale alla raccolta di bulloni e ingranaggi dei più vari saperi, con il cui ingegnoso assemblaggio si possono costruire strumenti efficaci di lotta contro le umane alienazioni.

E’ ormai evidente che l’espressione «linguaggio fenomenologico» è usata come termine di genere, astratta tipizzazione, mentre, in concreto, molti sono i “linguaggi schizofrenici”, tanti quanti sono i sofferenti per disagio mentale. Questo è il centro stesso dell’accorata ricerca di Piro, come chiarisce, quando in ultimo avverte:«quanto più ci si addentra in un discorso diagnostico, tanto più esso è individualistico, cioè caso per caso, tanto meno lo puoi usare per fare delle categorie. Tuttavia questa è la via della prassi». Infatti, senza «il prendersi cura della persona» senza dunque «interagire con la sua storia», il che presuppone la massima attenzione alla sua vita, «non c’è terapia».

Quale fosse lo spirito di Sergio, ancor mi piace commosso ricordarlo con le parole cordialmente ironiche e pervase di struggente allegria da lui autografate sulla mia copia del suo enciclopedico Trattato del 2005:«Mio eterno Maestro, benché un pò vecchiotti abbiamo ancora da fare: fra tante altre cose, dobbiamo ancora salvare il mondo».

Ecco «salvare» l’umanità negli uomini è la parola chiave!

E’ il senso della sua vita tutta intera protesa: pensieri, passioni, azioni»

Written by Dario Stefano Dell'Aquila

24 novembre 2014 at 17:02